Sentia Secunda maestra vetraia
Questa sono io: Sentia Secunda, anche se questo nome, di me, del mio carattere anticonformista e dei miei sogni di emancipazione, vi dice molto poco, o forse nulla. Prendetevi qualche minuto, se vi va, per ascoltare la mia storia.
Non è stato affatto semplice essere leale a me stessa. Sono stata una donna in un mondo in cui noi donne non avevamo nemmeno diritto a un nome vero e proprio, in cui i miei concittadini, qui, ad Aquileia, come a Verona o a Mediolanum, pensavano fosse sufficiente il nome della mia famiglia, i Sentii, a definirmi, fino a che – si capisce – una volta sposata, sarebbe stato il nome di mio marito a farlo. Aggiungeteci il fatto di non essere nemmeno figlia unica, ma la seconda arrivata, Secunda per l’appunto, con grande fantasia di mia madre e con tutto ciò che ne è conseguito: bisticci, vestiti usati, bambole e giochi stropicciati da quella spilungona di mia sorella e da quei prepotenti dei miei cugini maschi!
Ma cominciamo dall’inizio. Scusatemi, è uno dei miei difetti: sono quel tipo di donna che ha sempre una gran fretta di arrivare al dunque delle cose.
Non è che la mia famiglia fosse ricca, anzi, ma nella mia epoca era una cosa abbastanza normale essere in molti. A dire il vero, qualche difficoltà economica ce l’avevamo: papà lavorava sodo per mantenerci. Era un uomo molto fiero e concreto: mia madre mi raccontava spesso come era riuscita a conquistarlo dopo molta fatica. Su di lui non avevano avuto alcun effetto belletti e profumi; inutile sperare di attirare la sua attenzione con una stola colorata. Erano state la determinazione di mia madre e la sua tenacia che sopra ogni cosa avevano aperto una breccia nel suo cuore. Aveva riconosciuto in lei una degna compagna di viaggio, o così mi diceva, bofonchiando, per stemperare l’imbarazzo, quando insistevo per farmi raccontare la sua versione della storia. Non capivo mai a che viaggio si riferisse, visto che eravamo sempre vissuti ad Aquileia, e mi arrabbiavo tantissimo, mettendo il muso e rifiutandomi di parlargli per ore. Solo dopo molti anni ho realizzato la tenerezza di quelle parole rivolte a mia madre.
Mio padre era una bella persona: avrebbe sempre voluto migliorare la nostra condizione e magari guadagnarsi un posticino nella politica locale, non per sete di visibilità e di riconoscimenti, ma per quella smania di fare che lo animava dalla mattina alla sera e per quel suo senso della morale che non lo abbandonava mai. Ho sempre pensato, in cuor mio, che, forse, di morale ne aveva anche troppa, e quello che non aveva erano invece le risorse economiche e quella disinvoltura che serve in politica. Ricordo con allegria le nostre passeggiate: in estate, sul calar della sera, quando finalmente si alzava un po’ di aria fresca e Aquileia tornava a respirare dopo le lunghe e cocenti giornate di luglio, portava spesso me e mia sorella al foro. Amava soffermarsi a leggere le iscrizioni che ricordavano chi, con un tempio o con una porticus, aveva contribuito alla grandezza della città. Il suo sguardo ammirato faceva a pugni con quello mio e di mia sorella: due bambine di otto e dieci anni annoiate a morte, che scalpitavano per raggiungere la bottega del macellaio, nella speranza che regalasse anche a noi, come era solito fare con i ragazzini, qualche astragalo da usare per i nostri giochi. Era allora che mio padre, preso dallo sconforto, smetteva rassegnato di parlare, si sistemava un po’ il mantello e passava oltre. Oh, il mio caro padre! Al contrario di me, al suo nomen era davvero legato, eppure non ebbe mai la soddisfazione di vederlo scolpito su una di quelle targhe monumentali e temo, anzi, che una parte di lui, pur amandoci moltissimo, si biasimasse per non aver avuto un figlio maschio: qualcuno che avrebbe potuto tramandare il nostro nome e fare quello che a lui non era riuscito. Solo adesso, che vedo tutto con più chiarezza, capisco veramente come deve essersi sentito e mio malgrado, anche ora, non me la sento di fargliene una colpa, tutt’altro: il mio carattere e la mia ambizione le devo interamente a lui. Non mi ha mai cresciuta per essere di qualcuno e di questo non potrò mai ringraziarlo abbastanza. Non mi ha mai neppure illusa, d’altro canto, di poter cambiare da sola le regole di un mondo al maschile in cui, come vi dicevo all’inizio, la dignità di una donna era legata ad un nome che non era poi neppure il suo.
Aquileia però era bella, ancora di più attraverso gli occhi di mio padre che non si stancava mai di mostrarmi quanto fosse piena di possibilità e di vita: una città in fermento continuo, con il grande porto e persone che arrivavano da ogni dove e parlavano lingue mai udite. Anche questo è un ricordo prezioso della mia infanzia: un invito a essere tenaci e creativi.
Tra le miriadi di merci esposte sui banchi del mercato, più di ogni cosa, ero affascinata dalle forme e dai colori del vetro. Cominciai fin da piccola, quasi per gioco, ad interessarmi a quel materiale dal sapore un po’ magico: una pedina, qualche vago di collana, frammenti di bastoncelli colorati che qualche servo distratto aveva lasciato cadere a terra e abbandonato per strada e che io raccoglievo, per girarmeli e rigirarmeli tra le mani, sognando di paesi lontani come l’Egitto e la Siria. Diventata più grande, inventavo scuse assurde con mia madre per recarmi al mercato ogni volta che potevo. Iniziai così a frequentare le botteghe dei commercianti del vetro quasi quotidianamente: ben presto mi presero in simpatia e si affezionarono a quella ragazzina spigliata e curiosa. Dopo un po’ iniziarono ad aspettare con impazienza le mie visite, tanto da preoccuparsi se per qualche motivo alle volte tardavo ad arrivare: ma presto o tardi, sole o pioggia, io arrivavo sempre! E allora giù a raccontarmi storie di lunghissime e avventurose traversate per mare, condite da un inconfondibile accento esotico, molti strafalcioni e qualche aneddoto fantasioso che si divertivano a creare soltanto per stupirmi. Come se ce ne fosse stato bisogno!
Tra loro, a volte, c’era chi aveva anche intuito quale fosse per me la parte della storia più emozionante: mi raccontava allora in dettaglio come si soffiava il vetro o come, mescolando polveri di molti colori, si potevano ottenere vetri verdi, blu e perfino rosa. Per me era quello il vero incanto.
Scoprii a poco a poco che il vetro aveva mille usi, mille sfumature e decorazioni e che poteva essere lavorato in tanti modi diversi, a seconda delle esigenze. Al mio undicesimo compleanno mi regalarono un buffo coccodrillo in vetro soffiato, dicendomi che era una sorta di prototipo, un esperimento un po’ rozzo creato da un loro amico soffiatore. Non saprei, non avevo mica mai visto un coccodrillo io! A me sembrava straordinario! Mi spiegarono che a quel tempo, in città, di simili boccette per profumi se ne contavano meno di dieci: erano costosissime perché erano tutte fabbricate in Oriente ed è per questo che il loro amico soffiatore, intuendo l’affare, stava tentando pazientemente di imitarne la tecnica.
Fu così che scoprii anche che non era necessario allontanarsi troppo dalla mia città per essere catapultata in una officina vetraria e che anche qui ad Aquileia si realizzavano vetri di grande qualità, sottilissimi e trasparenti. Avevo tredici anni quando, per la prima volta, costrinsi mio padre ad accompagnarmi a visitarne una.
Contro ogni pronostico e ogni buon senso lo convinsi che non era del tutto inutile che una ragazza si interessasse a quel mondo, chiacchierando e frequentando fonditori, soffiatori e operai che lavoravano nelle officine attorno alla città. Forse mio padre sperava che il figlio di qualche ricco commerciante mi avrebbe notata e con un po’ di fortuna avremmo salvato capra e cavoli: lui, replicando il bel colpo fatto con mia sorella e sistemando anche la seconda figlia con un uomo facoltoso – senza per questo condannarmi a una vita priva di felicità -, io, trovando qualcuno simile a me con cui iniziare il mio personalissimo viaggio, proprio come avevano fatto anni prima i miei genitori.
Ma non fu così che andò. Quando mio padre venne a mancare, io e mio madre andammo a vivere nella casa di mio cognato: mi occupavo di gestire la servitù, aiutavo mia sorella con i bambini e presenziavo ai banchetti e alle cene che suo marito amava organizzare per ampliare la sua rete di contatti. Fui anche libera di continuare a coltivare le mie passioni e di frequentare il mondo dei maestri vetrai. Con il tempo alcuni soffiatori divennero dei cari amici, altri dei confidenti, altri ancora, dopo molte insistenze, mi fecero provare.
E va bene, lo ammetto: il lavoro della soffiatrice non si addice a una ragazza, specialmente in età da marito. Questo a meno che il tuo futuro marito non trovi particolarmente affascinanti i segni di bruciature sulle braccia dovuti alla mia proverbiale sbadataggine e l’odore acre che restava nei capelli dopo essere stata in officina, anche quando a casa me li cospargevo la sera con gli olii profumati di mia madre.
Dopo qualche esperienza, più o meno pericolosa, un po’ di fortuna e una buona dose di spirito imprenditoriale, capì che il lavoro che faceva per me non era la fabbricazione, bensì la gestione di un’officina del vetro tutta mia, in cui ero io la sola a decidere cosa produrre, come farlo e dove venderlo. Mi sentivo pronta: avevo ascoltato, avevo studiato e mi ero preparata; conoscevo tutto quello che c’era da sapere, avevo una visione e avevo un progetto. Mi mancava solo un’occasione.
Ci volle tutta la mia determinazione, ma alla lunga fu un successo.
Chiesi a mia sorella di intercedere con suo marito per ottenere un capitale iniziale.
Decisi che il mercato aveva bisogno di cose utili oltre che belle: contenitori da trasporto di buona qualità, ma di prezzo contenuto. Fortunatamente, mio cognato, da buon commerciante, aveva un gran fiuto per gli affari e capì il potenziale della mia proposta. Cercò di convincermi ad accettare anche un aiuto più concreto di quello economico: fu scaltro nel parlarmene e non mi fece affatto sentire inadeguata. Si offrì di affiancarmi nei primi tempi per tutto quanto era relativo alla contabilità e alla distribuzione dei prodotti. Il progetto e la firma sarebbero comunque stati i miei, mia l’officina, mia la gestione del personale, il controllo sulla qualità e sui guadagni.
Mi chiedo ancora quanta parte abbia avuto mia sorella in questo. Le devo molto. Mi sembrò subito un ottimo compromesso: io sola conoscevo nel dettaglio il progetto e le fasi della produzione, ma la sua esperienza negli affari mi sarebbe stata di certo utile. Inoltre, trovavo conveniente appoggiarmi a qualcuno che conosceva il mercato e poteva contare su una rete di contatti già avviata per lo smercio dei prodotti.
Mi misi a fare delle bottiglie di piccola e media dimensione, con il corpo quadrangolare, destinate alla vendita al dettaglio di liquidi e bevande. Vendevo bene e la richiesta era buona: tutti erano un po’ stupiti a sentire il mio nome, ma a breve il marchio Sentia Secunda sul fondo dei prodotti divenne una garanzia di qualità e cura nella realizzazione. Certo, andò bene perché potei contare su un’ottima squadra, in parte composta da alcuni amici di vecchia data che mi avevano fatto conoscere e amare questo mondo. In pochi anni fui in grado di ampliare l’attività e di restituire a mio cognato le somme prestate. Acquistai anche una casa per me e mia madre non lontano da dove mi portava a passeggiare mio padre da bambina.
Questa mia storia, neppure a farlo apposta, è custodita tutta in quel nome troppo corto, Sentia Secunda, che mi stava così stretto da ragazza. Non mi sono mai sposata e non l’ho mai cambiato. Con il nomen che era di mio padre ho marchiato il fondo delle bottiglie in sottilissimo vetro prodotte nella mia bottega ad Aquileia, giunte di gran lunga più lontano di quanto non abbia mai fatto io in vita: a nord, in una città che oggi si chiama Linz, che dopo quasi 2000 anni conserva due dei miei esemplari meglio riusciti e a est, in una regione che voi moderni chiamate Slovenia, dove, di una intera bottiglia resta, come per dispetto, solo un frammento di fondo, con ancora il nome che voi tutti ora ricordate: “Sentia Secunda facit Aquileiae vitra“.

MAN Aquileia – foto di G.Cecere
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